La “card sconto” al dipendente non è un compenso in natura

Piergiorgio Ricchetti

8 aprile, 2021

Accade spesso che un’azienda, in una logica di ulteriore promozione degli articoli prodotti e di fidelizzazione dei propri dipendenti, conceda a questi ultimi una card personale che permette di acquistare i propri prodotti con uno sconto rispetto al prezzo di listino.

Il caso specifico oggetto di interpello, finalizzato a verificare se tale procedura determini un compenso imponibile, riguarda una società che realizza capi di abbigliamento.

 

L’Agenzia delle entrate, con la risposta n. 221 del 29 marzo 2021, ha precisato, in estrema sintesi, che il valore corrispondente a tale sconto non rappresenta un compenso imponibile se il prezzo pagato dai lavoratori supera quello pagato da soggetti legati con accordi franchising o di somministrazione e se l’abbuono, non cumulabile, non supera quello applicato alla generalità della clientela in alcuni periodi dell’anno.

 

Non vi è, infatti, alcuno scontro fiscalmente rilevante del “vantaggio economico, in quanto le stesse caratteristiche della card – nominativa, non cedibile, utilizzabile esclusivamente dal dipendente e non cumulabile con iniziative analoghe adottate sul mercato – consentono di considerarla un mero strumento tecnico utilizzato per fruire dello sconto.

 

Nel caso specifico, lo sconto sarebbe pari a circa il 25% del prezzo di vendita finale del prodotto. In particolare, il dipendente pagherebbe un prezzo in ogni caso superiore rispetto a quello che la società pratica nei confronti dei soggetti legati da accordi di franchising o di somministrazione, nonché maggiore rispetto al costo sostenuto dalla società istante e, in alcuni periodi dell’anno, lo sconto praticato al dipendente potrebbe essere di uguale a quello praticato agli altri clienti.

 

L’Agenzia, per sciogliere il dubbio della società, che chiede se la concessione della card sconto ai propri dipendenti rappresenti per gli stessi un compenso in natura imponibile e, come tale, soggetto alla ritenuta in acconto Irpef (articolo 23 del Dpr n. 600/1973), approda nell’articolo 51 del Tuir ove è stabilito che nel reddito di lavoro dipendente va assoggettato a tassazione, in generale, tutto ciò che il lavoratore dipendente percepisce in relazione al rapporto di lavoro. Si intende comprendere oltre alla retribuzione corrisposta in denaro, anche quei “vantaggi economici” che i lavoratori subordinati possono conseguire ad integrazione della stessa quali, in particolare, compensi in natura, consistenti in opere, servizi, prestazioni e beni, anche prodotti dallo stesso datore di lavoro.

 

Rifacendosi poi alla definizione del valore normale, l’Agenzia ricorda che “Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso” (articolo 9, comma 3 del Tuir).

 

Per gli “sconti d’uso“, la risoluzione n. 26/2010 ha precisato che per i beni e servizi offerti dal datore di lavoro ai dipendenti, il loro valore normale di riferimento può essere costituito dal prezzo scontato che il fornitore pratica sulla base di apposite convenzioni ricorrenti nella prassi commerciale, compresa l’eventuale convenzione stipulata con il datore di lavoro, e nel caso in cui il datore di lavoro commercializza e vende ai propri dipendenti beni o servizi ad un prezzo scontato, l’eventuale rilevanza reddituale va considerata in base al principio di onnicomprensività enunciato dall’articolo 51, comma 1, del Tuir (cfr. risoluzione n. 137/2009).

 

Infine, tra i documenti di prassi l’Agenzia ricorda i chiarimenti forniti dal ministero delle Finanze con circolare n. 326/1997 secondo il quale il reddito da assoggettare a tassazione è pari al valore normale soltanto se il bene è ceduto gratuitamente, dal momento che se, invece, per la cessione dello stesso il dipendente corrisponde delle somme, il valore da assoggettare a tassazione è pari alla differenza tra il valore normale del bene ricevuto e le somme pagate.

 

Detto ciò, nel caso in esame, il prezzo pagato dai dipendenti della società istante è superiore a quello pagato dai soggetti legati da accordi di franchising o di somministrazione. Pertanto, il prezzo pagato dal lavoratore dipendente non si configura quale corrispettivo simbolico che maschera l’erogazione di una retribuzione.

 

Inoltre, lo sconto praticato ai dipendenti non supera quello applicato, in alcuni periodi dell’anno, agli altri clienti e non può essere cumulato con altre iniziative commerciali analoghe adottate in favore della clientela.

 

In base a tali considerazioni, l’Agenzia ritiene che non vi sia alcuno “sconto” fiscalmente rilevante, né materia fiscalmente imponibile, considerato che il lavoratore corrisponde il valore normale del bene al netto degli sconti d’uso.

 

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Piergiorgio Ricchetti
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