Piergiorgio Ricchetti
19 Maggio, 2020
Mai come in questo periodo di assoluta emergenza sanitaria si è assistito, obtorto collo, ad una diffusione di massa del cd lavoro agile.
Tale rapida diffusione non ha permesso, chiaramente, di affrontare tutta una serie di valutazioni preliminari ed organizzative fra le quali rientra anche il tema dei buoni pasto.
Si ritiene quindi utile, in questo momento, nell’attesa di auspicabili documenti di prassi da parte dell’Amministrazione finanziaria, effettuare alcune riflessioni al riguardo.
In primo luogo occorre richiamare la Legge n. 81 del 22 maggio 2017 che contiene le misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e le misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato.
Più in particolare, l’art. 20 della legge in questione, prevede che “””il lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato, in attuazione dei contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda.”””
Analizzando la normativa sui buoni pasto disciplinata dal Decreto del Mise n. 122 del 7 giugno 2017, si evince che è “l’attività finalizzata a rendere, per il tramite di esercizi convenzionati, il servizio sostitutivo di mensa aziendale”.
Il buono pasto non è tuttavia obbligatorio (salvo che non sia previsto da contratti collettivi o nella contrattazione di secondo livello o individuale) e viene erogato ai lavoratori che non hanno a disposizione una mensa aziendale. Si tratta quindi di un beneficio accessorio (o fringe benefit), così come lo sono le auto e i telefoni aziendali.
Le aziende o le amministrazioni che garantiscono i buoni pasto in regime di lavoro agile lo fanno per un semplice principio: lo Smart Working non vuol dire solamente lavorare da casa. Un dipendente, in una giornata di lavoro agile, può recarsi in un coworking, oppure lavorare presso una eventuale sede distaccata dell’azienda.
Perciò, così come il dipendente ha bisogno di mangiare fuori casa quando lavora nel suo ufficio, allo stesso modo dovrà farlo anche se sta svolgendo le sue mansioni in un’altra sede lavorativa.
In questo caso, il buono pasto, che come già sopra precisato sostituisce il servizio di mensa aziendale, risulta utile anche per i pasti consumati nella propria abitazione (parliamo sempre di cibo acquistato e poi consumato dal dipendente durante l’orario di lavoro).
Atteso quindi, come sopra ipotizzato, che sia possibile erogare anche ai dipendenti in smart working i buoni pasto in esenzione fiscale (nei limiti del Tuir), un ultimo aspetto da esaminare riguarda l’eventuale obbligatorietà da parte dell’azienda di corrisponderli. Al riguardo, è possibile affermare che la corresponsione dei buoni pasto si debba considerare obbligatoria soltanto laddove ciò sia espressamente previsto dalla contrattazione collettiva o nel contratto individuale, ma, al di fuori di queste ipotesi, la loro erogazione resta a discrezione del datore di lavoro.
Concludendo, nel caso in cui un’azienda decida di erogare “volontariamente” i buoni pasto ai propri dipendenti in regime di smart working – fermo restando che già l’art. 20 comma 1 della Legge n. 81/2017 dovrebbe essere sufficiente a giustificare tale corresponsione – si consiglia tuttavia di inviare una comunicazione rivolta a tutto il personale nell’ambito della quale si precisi la volontà di erogare il buono pasto anche ai dipendenti in regime di smart working.
19 Maggio, 2020